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Festival Internazionale del Jazz
Edizione 1985

La storia del Pescara Jazz

Pescara Jazz 1985

Il Savoy Ballroom, il celebre tempio del ballo in America, chiamato anche The Home of Happy Feet, sorgeva in Lennox Avenue, nel quartiere newyorkese di Harlem. Inaugurato nel 1926, tenne banco fino agli anni Quaranta presentando ogni sera due orchestre negre, dando vita ad entusiasmanti “jazz battles” per Big Band. Vi suonarono le orchestre più famose, quelle di Fess Williams, Fletcher Henderson, Duke Ellington, Cab Calloway, Chick Webb – che nel 1934 incise il famosissimo “Stompin’ at the Savoy” – e, dal ’37 al ’46, i Savoy Sultans, una formazione con due trombe, tre sassofoni e sezione ritmica guidata da Al Cooper. Nel 1978, il batterista Panama Francis ha riportato in vita la celebre formazione ricreando il sound originale dei Savoy Sultans, utilizzando parte di quel repertorio storico ed alcuni arrangiamenti dell’epoca. Una musica legata all’Era dello Swing e alla Follia del ballo, ma ancora oggi piena di vitalità e di vibrazioni positive. Una musica nata per il ballo, ma decisamente gradevole all’ascolto, prorompente e swingante, compatta e piena di fantasia. Un tuffo nel passato, nella storia “jazz dance” ancora fragrante e piacevole. L’Orchestra di Count Basie occupa una meritata posizione di rilievo nella storia del jazz. Affettuosamente la chiamavano “Macchina da Swing”, un titolo guadagnato grazie al suo ritmo infuocato e alla capacità di comunicare con semplicità, a colpi di “riff” venato di blues. Una macchina forte di un cuore pulsante di umori, un organismo entusiasmante costantemente in osmosi con il respiro del suo numerosissimo pubblico.

Un’orchestra dal sound unico e irripetibile, imitato ma mai eguagliato, la cui longevità sembra essere eterna, anche ora che il grande Bill “Count” Basie è passato a miglior vita. Ora è Thad Jones al volante di quella macchina, un trombettista e arrangiatore di razza che ben conosce i segreti di questa orchestra per avervi militato dal ’54 al ’63, prima di raggiungere prevegoli successi personali sia come solista che come bandleader. E con lui, a rinverdire quei fasti, c’è Joe Williams, un vocalist che fu alla corte del Conte dal ’54 al ’60, ancora oggi, a 67 anni, integro e potente. Una voce generosa e di gran classe, robusta come il buon vino che migliora con il trascorrere degli anni. Ne è esempio il recente Grammy Award assegnato al suo album “Nothin’ But The Blues”. Parigi, per la sua atmosfera cosmopolita e la sua libertà intellettuale, è stata per moltissimi anni la meta preferita di quei jazzmen di colore che, per ragioni razziali o semplicemente per scelta di vita, decisero di abbandonare gli Stati Uniti e stabilirsi nel Vecchio Continente. Vi soggiornarono per lunghi periodi Coleman Hawkins, Sidney Bechet, Bill Coleman, Don Byas, Kenny Clarke, Bud Powell, Dexter Gordon, Steve Lacy, Anthony Braxton, i membri dell’Art Ensemble of Chicago, tanto per citarne alcuni, oltre ai musicisti che formano questa Paris Reunion Band, un’orchestra inedita il cui carattere è tutto da scoprire. Però, conoscendo i singoli, c’è da pensare ad un corposo ed elegante viaggio all’interno dell’idioma boppistico e delle sue evoluzioni.

Tra i protagonisti più attesi, il tenace e vigoroso Woody Shaw, solista originale e armonicamente avanzato; l’ardente e fragoroso Johnny Griffin, improvvisatore energico e pieno di humour; il robusto e gustoso Slide Hampton, arrangiatore elegante e di ampia esperienza; il sofisticato e incisivo Kenny Drew, pianista raffinato e grintoso. Con loro, altri quattro leader in un’affascinante riunione targata Paris. Quando Woody Herman iniziò la sua carriera di bandleader – di cui il prossimo anno si celebrerà il cinquantenario – la sua formazione fu soprannominata “the band that plays the blues”. Ma Herman seguendo i suoi mutevoli umori, si sbarazzò presto di quel titolo limitante rivolgendosi ad altre forme e altri stili, rinnovandosi continuamente, proponendo aspetti strettamente legati alla sua indomita anima musicale e circondandosi di nuovi talenti, a volte giovanissimi, capaci di mantenerlo giovane e in sintonia con le generazioni contemporanee. Malgrado i continui rinnovamenti, il suo “gregge tonante” – così chiama ancora oggi le sue formazioni – si è sempre mantenuto su alti standard, anche se difficilmente è riuscito ad eguagliare lo splendore del “secondo gregge”, noto come l’orchestra dei “four brothers”, in onore dei quattro sassofonisti che ne caratterizzarono l’originale sound. Ma Woody Herman, pur se fedele all’organico di Big Band, ama prendersi delle vacanze con piccoli gruppi, All-Stars forti di superbi solisti, come questa con il soave Harry “Sweet” Edison, il robusto Carl Fontana, i veementi Buddy Tate e Al Cohn, con i quali improvvisare vibranti jam sessions.

Quando la scorsa estate la Dirty Dozen Brass Band varcò per la prima volta l’oceano Atlantico per partecipare a numerose manifestazioni jazzistiche europee, c’era un certo scetticismo nei suoi confronti. Dopo averla ascoltata e vissuto quell’autentica girandola di divertimento sonoro, lo scetticismo lasciò il posto alla sorpresa e presto mutò in entusiasmo. La formula di questa “sporca dozzina” è semplice e accattivante, allegra come la musica di New Orleans, la città che gli ha dato i natali e l’ha svezzata prima che l’impresario George Wein la scoprisse e la prendesse sotto la sua ala protettrice, facendogli incidere l’album “My Feet Can’t Fail Me Now” e proiettandola ben oltre i suoi confini di appartenenza geografica. In essa, affastellati o ben ordinati, convivono stilemi musicali dissimili, espressioni sonore che vanno dal blues al funk, coagulate da un approccio tipico da marchin’ band, rigoglioso e disinibito, con le sue impennate squillanti e coinvolgenti. Il suo repertorio abbraccia l’antico e il moderno, da “St. James Infirmary” a “Bongo Beep”, da “Caravan” a “Blue Monk”. Uno spettacolo pieno di humour e di colori. Shorty Rogers, oltre che per le sue qualità di trombettista, è noto per il lavoro di compositore e arrangiatore. Nella triplice veste, tra la seconda metà degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta ebbe un ruolo importante nelle Band di Woody Herman e Stan Kenton. Per il primo scrisse i celebri “Lemon Drop” e “Keen and Peachy”, mentre al repertorio del secondo consegnò “Jolly Rogers” e “Viva Prado”, tanto per citare alcuni dei suoi pezzi più famosi, imponendosi come una delle figure di spicco nel jazz per grande orchestra. In seguito si dedicò a sue formazioni, Big Band o complessini, con i quali raggiunse una notevole popolarità nell’ambito del jazz californiano. Rogers divenne il leader del tanto discusso e criticato movimento jazzistico della West Coast, giudicato superstrutturato e privo di emozioni, e finì per uscire dalla scena attiva per dedicarsi alle colonne sonore per il cinema e la TV, lavoro che gli ha dato credito. Da qualche tempo, richiamato dalla passione per il jazz che ha sempre continuato a coltivare, Rogers è tornato in scena, richiamando al suo fianco i vecchi amici di un tempo, riattivando, con nostalgia e amore, il jazz della West Coast.

Mario Luzzi

Pescara Jazz 85

PANAMA FRANCIS and his SAVOY SULTANS
LOU DONALDSON QUARTET
THE WORLD FAMOUS COUNT BASIE ORCHESTRA
& JOE WILLIAMS WITH THAD JONES
PARIS REUNION BAND
WOODY HERMAN ALL STAR
THE DIRTY DOZEN BRASS BAND
SHORTY ROGERS and his WEST COAST GIANTS

Gallery Pescara Jazz 1985